… DI ALTRE STORIE: REGRESSUS AD UTERUM

D. Lévy – Abstract White Reliefs

La luce spunta nelle tenebre per gli onesti, per chi è misericordioso, pietoso e giusto.

SALMI 112, 4

Samahin è la notte di passaggio, il varco che conduce, attraverso le giornate di Ognissanti e dei Morti, alla stagione oscura. Attendo ogni anno questi giorni che quest’anno si preannunciavano poco poetici, per il gran caldo ed il sole che illumina di luce non vera, elettrica, il cielo. Al mattino, il primo novembre, un dono: la nebbia, il cielo coperto e l’odore delle foglie che marciscono e ritornano alla Terra a rendere quello che l’albero aveva dalla Terra ricevuto e così insegnano il senso del vivere, che è un restituire. Questa giornata non può che essere consacrata, mi dico, ad una camminata nella natura, tra gli alberi, l’acqua, la terra. Allora si va: la grazia di avere le Valli del Natisone a mezz’ora di strada, il nome evocativo di un luogo mai visto, Foran des Aganis. Foran in friulano indica l’abisso, la profondità, l’orrido, un anfratto, una cavità e le Aganis sono creature magiche descritte nella mitologia friulana, spiriti femminili che popolano i corsi d’acqua e come i corsi d’acqua sanno essere dolcissime o tremende.

Il viaggio si rivela “iniziatico” sin dal suo inizio: sbagliamo strada ed il percorso per raggiungere il Foran si fa lungo e per niente facile. Si deve scavallare il monte, superare 650 mt. di dislivello e scendere poi alla ricerca delle Aganis. Il monte ha un nome suggestivo: Picat. Aleggiano strane storie, forse originariamente era Picjat, impiccato e si riferiva all’uso da parte dei Signori di Suffumbergo di impiccare i dissidenti durante il Medio Evo o forse, più semplicemente, significa “piccolo monte”. Io naturalmente propendo per l’Impiccato e mi viene in mente la carta dei Tarocchi, il dodicesimo Arcano maggiore che, finito il suo percorso (i primi 11 Arcani) si capovolge, ritorna ad essere una creatura fetale pronta a rinascere, sospesa per un piede con una corda, perché ancora trattenuto ad un qualcosa, le braccia conserte dietro la schiena, come un rinunciante che attende la sua ora per rinascere, certo della Grazia, confidente nel miracolo. Attende che la corda si sfili o che venga recisa, attende ed a me pare gioire, dondolando a testa in giù.

Sul percorso per “superare” l’Impiccato, segni e sintomi. Un cartello narra delle Krivapete, streghe che popolano le Valli ed hanno i piedi ruotati all’indietro, le punte guardano la strada percorsa, i talloni la strada da fare: una viparīta, un’inversione dei piedi sul piano orizzontale, un “sottosopra” orizzontale che è preludio al caos, ad un cambio di prospettiva creativo e tremendo. Le Krivapete hanno i capelli verdi, sono donne dotate di una grande ed intollerabile autonomia, trasgressive, selvagge, conoscono le erbe, sanno essere magnanime e crudeli e rapiscono i bambini, perché, si narra, alcune sono cannibali. Il cartello, per bocca della Krivapeta, ammonisce:

“Quando tutto è diventato segno e un solo segno sostituisce tutte le cose, tu cominci a chiederti che cosa contenga o nasconda questo fitto involucro di segni. Ti sei accorto che mentre credi di visitare la città, non fai altro che registrare i nomi con cui essa definisce se stessa. Finalmente, tu comprendi che solo ciò che è mitico è reale. Per esempio, l’ardere di un cielo stellato in una notte d’estate, questo è una vera esperienza

e ancora:

Senza una nuova “consacrazione” delle montagne, dei boschi, del tempo, non ti salverai. Non ti ricordi, quando bevevi l’acqua del fiume? Ti stanno rubando il futuro. Per i loro profitti. Loro, quelli del segno.

Il sentiero dopo l’incontro con la Krivapeta si fa confuso, non è ben segnato, si va, confidando sia quello giusto. C’è una piccola costruzione nel mezzo del bosco, l’impiccato ormai è quasi completamente “scavallato” ed il cartello, caduto a terra, racconta di un certo Dante Zussino, un Sannyāsī delle Valli che pare abbia abbandonato il mondo e si sia ritirato a vivere qui, in mezzo al bosco, in mezzo al nulla, lontano dalla civiltà città che allergica, in questa minuscola capanna, il letto fatto di assi e tronchi, una stufa a legna, un tavolo e nient’altro. Un rinunciante. Nelle Valli. Segni, sintomi.

L’impiccato alle spalle, la vista si allarga sulla vallata e tra i cani che abbaiano a custodia di un gregge, altri che abbaiano a custodia di una casa immersa negli alberi, un uomo ci indica la strada per il Foran, LA via: vive qui, in quella casa tra gli alberi, con il fotovoltaico e gli accumulatori che gli danno 4 ore di elettricità al giorno, sufficienti a ricaricare il cellulare e la sigaretta elettronica. “Sono per la vita semplice” dice, “Mi interessano droga, figa e pace”. Rispondo in friulano “cemût dati tuart? (come darti torto?)”. La via è scoscesa, occorre prudenza, ci si deve aiutare afferrando gli alberi, le pietre. Poi si fa comoda, larga, pianeggiante a dare un po’ di respiro,

Il Foran des Aganis è segnalato da un Cristo crocefisso, c’è un sentiero che scende verso il torrente, si fa scivoloso, di nuovo impervio e poi, eccolo. Un foro, un buco nella parete del monte da cui sgorga un rigagnolo d’acqua che si ingrossa pian piano e da vita ad un torrente che scorre giù, a valle. Come un animale attratto, fortemente attratto dalla tana, entro.

L’acqua tra i piedi, dopo pochi metri la vista è difficile. Illuminando con la luce del telefono una enorme Yoni umida si apre ad accogliere chi osa entrare ancora più in profondità, sino all’utero della terra per incontrare il buio, un buio indescrivibile, un nero che gli occhi non sanno riconoscere e nessun rumore, tranne quello dell’acqua che non vedo più ed ora potrebbe scorrere ovunque, sotto, sopra, dentro di me. Resto così, nel ventre della terra, ferma, al buio. La sensazione è certamente erotica, di vita che scorre, di terrore che sta lì, pronto ad afferrarti e di misericordia.

Misericordia deriva etimologicamente dal latino “misereor cordis”, ho pietà del cuore, ne ho compassione . In ebraico, misericordia si rende con hesed, termine che implica un atto di pietà intesa come la relazione che unisce due parti, è cioè una “bontà” cosciente, voluta e praticata per tenere fede a se stessi e a Dio, una misericordia razionale. Un altro termine ebraico, usato di frequente nella Bibbia e reso con “misericordia” è rahamîm. Questo termine è formato da rehem, utero e mayim, acque ed evoca un sentimento viscerale, irrazionale, che emerge indipendentemente dalla propria volontà, è l’amore di Dio che, per sua stessa natura è amore. Ogni sūra (tranne la IX) del Corano inizia con “bi-smi llāhi r-raḥmāni r-raḥīmi”, “nel nome di Dio, il clemente, il misericordioso” ed il termine arabo raḥīmi è modulato sulla stessa base linguistica: Dio utero, che accoglie in misericordia (e sorrido pensando alle menate sul patriarcato nelle religioni del Libro…). Il termine sanscrito per “misericordia” è mṛḷīka, dalla radice mṛḍ, che tra i tanti significati include quello di deliziare, rendere lieto, mṛḍa è uno dei nomi di Śiva, suggestivamente il “misericordioso”, appunto, e mṛḍā è uno dei nomi di Durgā, la terribile, nel suo aspetto compassionevole.

Nel riemergere dall’antro penso a questa “misericordia” viscerale che sento essere preludio al tremendo. E non so spiegare ma sembrano ad un tratto evidenti gli aspetti terrificanti del Dio degli ebrei, l’ira del Cristo nel Tempio, I nomi terribili del Dio dei musulmani, gli aspetti distruttivi della Dea, i riti nei campi crematori degli Aghori, la furia implacabile della Natura, la Morte, il buio. In un quadro che non so dipingere, sono i vari colori della misericordia di Dio, che accoglie chi gli si affida, come la Terra che accoglie ciò che a lei si restituisce, che accoglie i Morti. E penso al simbolo, che è evidente, mai nascosto e sempre presente in ogni gesto quotidiano. L’antro, la cavità, l’infossarsi, lo scendere in profondità dove non si vede nulla sono simboli vivi del processo iniziatico che riconducono al proprio sé anche quando se ne fa esperienza inconsapevole, perché si sbaglia strada. Anzi, forse il segreto è sbagliarla, la strada, che solo così si ottiene misericordia…

Pubblicato da zunyapala

"Esiste una stanchezza dell'intelligenza astratta, che è la più spaventosa delle stanchezze. Non pesa come la stanchezza del corpo, né inquieta come la stanchezza della conoscenza emotiva. È un peso della coscienza del Mondo, un non poter respirare con l'Anima." F. Pessoa

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