QUINTO: NON NUTRIRE

M. Rakovic – Senza Titolo

Siete grotteschi! Grotteschi e disgustosi! Perché mangiate se non avete fame?

marco ferreri – la grande abbuffata

In questi giorni stanchi, dove tutto pare immobile ed osservo rassegnata la noia che si insinua ed espande, portando con sé il compagno fedele, il sonno e quell’astio nervoso che rende impossibile vestirsi, andare, interagire, vivere una vita sociale, ho letto un libricino per certi versi sorprendente: “Ritorno all’oggetto interiore” di Gian Antonio Gilli (ed. Mimesis, 2017). L’autore è un sociologo che si dedica da anni allo studio dello schema corporeo e dell’esperienza religiosa ed il testo in questione propone una interessante lettura sociologica del percorso mistico. In sintesi, l’autore traccia un parallelo tra la progressiva opera di socializzazione del bambino che si ritrova alla nascita completamente integrato in se stesso ed appagato nell’introversa contemplazione di quello che Gilli chiama “oggetto interiore” (ossia la configurazione alla nascita di ciascun soggetto), oggetto interiore da cui dovrà progressivamente distogliersi per entrare nella vita sociale e la via mistica che sembra proporre un percorso all’inverso, dalla condizione dell’individuo socialmente integrato, estroverso, che ha abbandonato la sua condizione primaria, al ritrovamento di quella, quindi un ritorno all’oggetto interiore.

Secondo l’autore, il processo di socializzazione del bambino procede per via sensoriale: è attraverso la stimolazione sensoriale che il bambino viene coinvolto socialmente, viene allontanato da se stesso ed introdotto nel mondo, con le sue forme, i suoi colori, i suoi oggetti molteplici. La risposta dell’adulto che se ne prende cura alla reazione del bambino rispetto l’incontro sensoriale con ogni oggetto esteriore, ogni oggetto mondano, insegna al bambino quelli che Gilli definisce “proto valori” ossia “quei valori che si collocano alle radici stesse dei comportamenti, degli atteggiamenti, delle manifestazioni di preferenze, eccetera” ed insegna il volere, la volontà, che per l’autore è un “conferimento della socializzazione”. Con l’esercizio della volontà il bambino si apre alla molteplicità, alla conoscenza (che è sempre una relazione tra soggetto ed oggetto esterno a sè ed è temporalmente e spazialmente connotata) abbandona l’essere e diviene.

Il mistico traccia il percorso a ritroso: ritirandosi dal molteplice, egli abbandona l’esercizio della conoscenza, rinuncia all’atto volitivo e giunge così a non nutrire più desiderio sensoriale, si disinteressa al mondo e converge verso il proprio oggetto interiore, con il quale, secondo l’autore, egli stabilisce un rapporto strettamente soggettivo ed esclusivo.

In entrambi i percorsi, l’aspetto sensoriale sembra avere un ruolo cruciale: i sensi sono una porta che, a seconda della direzione in cui la si percorra, conduce al mondo o emancipa dal mondo.

Il ruolo dei sensi è cruciale anche nel percorso dell’aṣṭāṅgayoga di Patañjali: Pratyāhāra, “ritiro dei sensi”, il quinto degli otto aṅga è una porta che separa lo yoga esterno, descritto dai primo quattro, dallo yoga interno che conduce attraverso il processo meditativo al samādhi, una sorta di identità, di fusione del soggetto che si perde assorbito dall’oggetto di meditazione.

I primi quattro aṅga tengono in un certo senso conto della dimensione sociale, cioè del rapporto del praticante con gli altri, con se stesso in quanto individuo inserito in un ambito sociale, con il proprio corpo, inteso come “oggetto” soggettivo ed il respiro, anch’esso inserito in una dimensione soggettiva e di relazione, ma non hanno una valenza morale, non sono cioè pensati affinchè lo yogi si inserisca nella dimensione sociale, sono invece strumentali, servono a creare un contesto sociale poco disturbante. Così, per esempio, la non violenza, la veridicità, il non rubare, il contenimento sessuale ed il rifiuto dell’avidità sono per lo yogi comportamenti funzionali atti a semplificare la sua esistenza tra gli uomini, non a renderla migliore ed egli adotta un comportamento etico per non avere complicazioni sociali, perchè possono inquinare ed ostacolare il percorso alimentando la confusione mentale, non per conformità sociale o riguardo morale. Lo yogi, il mistico, nasce asociale.

Lo yoga interno, invece, riguarda una dimensione che non possiamo definire facilmente, perchè è soggettiva, nel senso che riguarda il soggetto quando per soggetto si intenda grammaticalmente il termine di cui si afferma ogni predicato, considerato di per sè e completamente avulso dalla dimensione sociale, ma conduce ad una condizione di cui non si può affermare nulla, non ci sono attribuzioni soggettive possibili, perchè nelle sue intenzioni porta all’annichilimento del soggetto (dell’io sono, dell’io predicato) stesso. In quest’ottica, nel culmine dell’esperienza mistica non c’è un soggetto coinvolto dal suo “oggetto interiore”, perchè non esiste più alcun soggetto. Così, volendo fare in questo caso un paragone con l’ipotesi del Gilli, se la condizione primaria del bambino risultasse coincidere con la condizione ultima del mistico, risulterebbe difficile parlare di “soggetto” che è preso dal proprio oggetto interiore, perchè quando si è ormai in un rapporto con un oggetto interiore od esteriore definito, dunque delimitato, la condizione primaria è ormai andata perduta.

Pratyāhāra è composto da un suffisso, prati, che indica un “andare in direzione opposta” e dal termine maschile āhāra, cibo, nutrimento. Indica in qualche modo un “contro nutrimento” dei sensi. Per Patañjali avviene quando i sensi non vengono in contatto con i rispettivi oggetti. Il termine tradotto con “non vengono a contatto” è asamprayoge, letteralmente non agganciato, non unito ed indica non tanto una forma di insensibilità verso gli stimoli sensoriali, quanto piuttosto il non unirsi ad essi, un non coinvolgimento, cioè indica un atteggiamento che percepisce ma non elabora la sensazione, non vi indulge, non la colloca, non la significa, resta sospeso.

“Non trattiamo del mancare delle cose, che non denuda l’anima che ne conservi appetito, bensì trattiamo della nudità del gusto e dell’appetito delle cose, che è ciò che lascia l’anima libera e vuota di esse anche quando le abbia” San Giovanni della Croce – Salita al Monte Carmelo

I sensi sono intimamente legati alla mente e la loro potenza è tale da trascinare la mente con sè, sull’oggetto.

Se anche uno dei sensi scivola via, la conoscenza di una persona scivola via con quel senso, come l’acqua da un recipiente” Manu

E ancora

O figlio di Kunti, i sensi sono così turbolenti che possono trasportare via di forza anche la mente di un uomo saggio che si sforza di controllarli” Bhagavad Gītā II, 60

Pratyāhāra è dunque un concetto ambivalente, perchè se da un lato indica essenzialmente la condizione dei sensi sotto il controllo di una mente stabile, concentrata ed incapaci di “condurre il gioco”, dall’altro sembra suggerire anche una parte attiva, una prassi che prevede un digiuno sensoriale e che si traduce nell’esercizio del silenzio, nell’astinenza dal cibo, nel far digiunare gli occhi, evitando di innondarli costantemente di immagini e la funzione di questa prassi è quasi fisiologica, serve a rendere la mente più forte e capace di porsi verso gli oggetti offerti dai sensi in modo distaccato, come uno spettatore esterno che osserva senza farsi da questi trasportare. Così, una pratica di digiuno sensoriale è di aiuto per calmare la mente e renderla capace a concentrarsi ed una mente concentrata manterrà costantemente il controllo sui sensi, non si farà sedurre, cioè condurre fuori da sè.

Quando la seduzione sensoriale è annichilita, il soggetto si pone dentro di sè ed è in questo spazio che coltiva l’ascolto di un oggetto. C’è cioè ancora una relazione soggetto/oggetto, ma si risolve in un ambito interiore, non esterno. L’elemento distintivo è l’unicità dell’oggetto su cui è posta l’attenzione: ritornando al Gilli, nel bambino l’oggetto interiore è lui stesso, nel mistico Dio. Per Patañjali, questa fase è preliminare all’esperienza mistica, perchè questa si risolve, come già detto, nell’annichilazione del soggetto e nella perdita di senso del rapporto soggetto/oggetto. Il linguaggio che descrive in Patañjali l’esito finale del processo di liberazione è oscuro, simbolico, perchè non può rendere concettualmente qualcosa che, io credo, trascende non solo gli strumenti del linguaggio ma le stesse categorie del reale in cui ci muoviamo.

Il percorso di “ritorno al proprio centro” comporta inevitabilmente un allontanamento dalle dinamiche sociali e richiede dunque una forma di astinenza sensoriale praticata, che si rende necessaria per “ritrovare la strada”. Ritrovare la propria integrità, preservarla dall’inquinamento e dai turbamenti che ogni convivenza sociale inevitabilmente impone, “essere nel mondo, ma non del mondo” è solo un prerequisito necessario, non è lo scopo della ricerca.

Sappi che l’anima per giungere alla totale trasformazione in Dio deve smarrirsi e negarsi alla vita, al suo soffrire, sapere, potere e morire, vivendo e non vivendo, morendo e non morendo, patendo e non patendo, rassegnandosi e non rassegnandosi, senza riflettere su nulla” M. de Molinos

Pubblicato da zunyapala

"Esiste una stanchezza dell'intelligenza astratta, che è la più spaventosa delle stanchezze. Non pesa come la stanchezza del corpo, né inquieta come la stanchezza della conoscenza emotiva. È un peso della coscienza del Mondo, un non poter respirare con l'Anima." F. Pessoa

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