
La mente crea l’abisso, il cuore lo valica
NISARGADATTA MAHARAJI
Questa mattina inzuppo Patañjali nel caffè. Riprendo a leggerlo con cadenza ciclica, ne ho diverse edizioni, alcune in inglese, oggi ho ripescato la traduzione di Edwin F. Bryant. Mi commuove rendermi conto ogni volta di non aver compreso bene, di non aver afferrato e sempre finisco col desiderare la dimensione verticale del testo, quella che scava, va a fondo, si immerge nel sᾱṃkhya, ricerca le contaminazioni col pensiero buddista and, come direbbe Slavoj, so on and so on…
Il testo definisce lo yoga a partire dal Citta, parola che indica non solo la mente, ma tutto il complesso emotivo, sensoriale e mentale della persona e lo descrive come l’acquietamento, il controllo, la soppressione dei cambiamenti di stato di questo complesso. Quando questo stato è raggiunto, l’osservatore dimora nella sua vera natura, altrimenti continua ad identificarsi con le fluttuazioni del Citta (e a soffrire).
Mi guardo attorno, in questi giorni. Sono giorni strani, perché la narrazione degli eventi supera in potenza gli eventi stessi. La realtà è stata sezionata ed una parte è stata talmente enfatizzata da oscurare il resto. Esiste solo una malattia ed il vivere le gravita attorno e si riorganizza sul timore di morire, timore che è apparso, si è materializzato, ha preso forma. Ogni tentativo di riportare la discussione al dato oggettivo fallisce, ogni visione porta separazione e non c’è una soluzione condivisa. Perché? Osservo e vedo ragione (o torto, non fa differenza) ovunque.
Non credo si parli per raccontare se stessi, credo ci si dia forma parlando. Non c’è un “me stessa” ed allora parlo, per darle una forma, per rassicurarmi e dichiararmi esistente. Lo sto facendo anch’io ora, per le stesse ragioni. Ma in verità non ho niente da dire. In filosofia si parla di problema ontologico ed in molte tradizioni si viene ad esistere con la parola, col suono. Prima, prima del venire all’esistenza, non valgono le categorie ontologiche, prima si è sul piano metafisico. In un certo qual modo, la sola parola pronunciata per “dire” davvero qualcosa è la parola divina o la parola ispirata da qualcosa o qualcuno che non sia “Io”, laddove il mio parlare è solo ribadire ciò che già è evidente di per sé ed ancora più imprudente è ascoltarsi, perchè si rischia di credere ad una parola che non è creativa ma è parola che inchioda, che fissa, che pretende di definire e così facendo limita. Così quando parlo e mi ascolto mi identifico con la parola pronunciata, con le sensazioni che mi procura, con le emozioni che forgia. Patañjali lo dice chiaramente, è il nostro funzionamento ordinario quello di identificarci ontologicamente con le fluttuazioni del Citta, con il rumore che lo caratterizza. Finiamo per crederci i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre paure, le nostre emozioni: per il timore di non esistere finiamo per immedesimarci con ciò che per sua natura non è mai identico, è sempre mutevole ed instabile.
Così, nell’osservare le dinamiche quotidiane, gli scontri politici, le verità di ciascuno, mi pare di vedere solo soliloqui, bisogni di esistere, dolori, paure. Tutti legittimi, perché esistono, ci sono e ciò che è, se è, è necessario che sia. L’aggressività che si percepisce è, forse, un estremo bisogno di dichiararsi esistenti in un mondo la cui logica è sempre più difficile da afferrare. Ed i buoni, i giusti, quelli che sembrano preoccupati della salute altrui stanno solo usando un altro linguaggio per ribadire se stessi, non c’è nessuna reale volontà di comunicare, perché per comunicare è necessario prescindere dal desiderio di affermarsi, per comunicare occorre fare un passo indietro e dare spazio a ciò che deve essere comunicato, come fanno i Profeti, i Santi, che si rimettono alla volontà di Dio e diventano strumento del vero (molti, infatti, sono illetterati, Mosè era balbuziente…)
Lo yoga richiede una presa di distanza, che è un po’ paradossale, perché non è possibile se non immergendosi in ciò da cui ci si vuole distanziare. Per vedere le proprie dinamiche interiori occorre starci dentro, non scappare. Mi piace vedere la pratica come un atto di coraggio, una azione eroica, in fondo, perchè si mette a rischio ciò che ci è consueto, famigliare e lo si fa senza alcuna garanzia, senza alcun merito o guadagno, alla cazzo, insomma. Patañjali dice che quando si riesce a tacitare il Citta, quando il silenzio interiore diventa assoluto, il testimone risiede nella sua vera natura. Sto inzuppandolo nel caffè, lo sto rendendo digeribile a me stessa e mi accorgo che fare silenzio, stare zitti, aiuta a stare in pace. Il consiglio di pratica che voglio dare ai miei allievi in questi giorni è “fate silenzio”, lasciate che gli altri abbiano ragione, non discutete, restate avvolti nel vostro silenzio, siate sordi, stupidi, balbuzienti.
Su certe cose a volte è necessario planare, non immergersi, per vederle dall’alto, senza il rischio di impantanarsi. Patañjali parla di una prassi, non fa filosofia da salotto, quindi prima di ingoiarlo, zuppo di caffè, gli chiedo scusa, perché credo nella sacralità dei testi, nelle parole ispirate e nella verità di certi testi, ma in questi giorni mi serve proprio renderlo prosaico, terra terra, perché ho bisogno di umiltà, di cose semplici per ritrovare la distanza da me stessa e credo che in fondo non fosse uno che si formalizzava per queste cose…