
Il giusto non cerca niente con le sue opere. Sono servi e mercenari quelli che cercano qualcosa con le loro opere, o che agiscono in vista di qualche perché. Dunque, se vuoi essere formato e trasformato della giustizia, non cercare e non aver di mira nelle tue opere alcun perché, né nel tempo né nell’eternità, né ricompensa né beatitudine, né questo né quello, perché tali opere sono morte davvero.
M. ECKHART
L’etimologia vuole che la parola “sacro” sia ricondotta alla radice indoeuropea “sac”, attaccare, aderire, avvincere, da cui il termine sanscrito “saccate”, accompagnarsi, adorare, riferentesi comunque alla divinità. Vi è nella nostra epoca una “mancanza” di sacro, si è persa la dimensione misterica, la convinzione, che diventa modus vivendi, di essere immersi nel mistero, in ciò che non è accessibile attraverso la ragione; manca la presenza costante della dimensione metafisica, percepita umilmente come inaccessibile ma sempre presente. Eppure il sacro non è andato perduto, si è persa invece la capacità di percepirlo. Percepire il sacro non è attività accademica, studio. Si è educati al sacro attraverso la prassi, il comportamento ripetuto, codificato ed introiettato senza filtro razionale, senza “pensiero”. Così, il gesto rituale totalmente incomprensibile, percepito come inutile ed eseguito senza altro requisito che la presenza, si incista nella carne come un seme nel terreno. Occorre una carne feconda, fertile, una carne non disturbata, ben nutrita ed in quella carne, col tempo, fruttificherà. Quando avrà fruttificato, la persona percepirà il sacro, lo riconoscerà, saprà, non come si sanno mille cose sui simboli, sull’antropologia del sacro e tutte quelle belle cose che si studiano all’università, ma saprà come l’animale conosce l’erba giusta per guarire, saprà con ogni cellula del corpo.
Occorre un seme: occorre una prassi “stupida”, subita, non compresa, occorre rinunciare a sapere cosa accadrà, che nessun seme garantisce un frutto. Il senso del gesto rituale è questo ed è tremendamente pieno, come un seme minuscolo, che sembra nulla ma che può dare vita ad un albero immenso.
Ci vuole carne feconda: il corpo è inquinato innanzitutto dai processi mentali ipertrofici e continui, dal senso dell’io, dalla pretesa costante di affermare la propria identità distinguendosi (e quindi dividendosi) dall’altro. Così, ad esempio, nell’Islam si raccomanda il pudore ed il velo, la veste casta che non si fa notare, che passa inosservata, invisibile. Qual è il significato profondo del nascondere il proprio volto? È la rinuncia alla propria identità, ad essere riconosciuta, è diventare nulla, niente. Una donna emancipata leggerebbe questa cosa in maniera negativa, che è un diritto individuale esprimere la propria unicità, la propria individualità, il proprio “essere” unico e speciale ed in questo sta la bestemmia, perché nel sacro l’unicità è solo divina e l’individualità un impedimento alla percezione. Certo, alla donna viene richiesto di non essere seduttiva, perché è in suo potere condurre fuori, potere che esercita nel parto, nel fare innamorare il maschio conducendolo fuori da sé ed inducendolo a perdersi (le femministe mi metteranno al rogo…). Eppure per essere indivisibile in sé occorre essere divisibile da qualcos’altro e quindi prenderne le distanze. Il velo annienta l’individuo, lo uccide, così la veste rituale maschile, identica per tutti, la tonaca dei monaci, la veste dei Sufi.
La morte dell’individuo è necessaria al sacro, il sacrificio ne rappresenta la linfa. È innanzitutto sacrificio di sé, delle proprie necessità di dire “io sono”, percepire il sacro è fare silenzio, è oblio di sé.