LO YOGA, LA MENTE, IL SĀMKHYA: PROVIAMO A “SEMPLIFICARE”

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Nasrudin stava passeggiando per l’affollata città di Baghdad quando si scontrò con un altro uomo ed entrambi caddero a terra.
“Scusami”, chiese educatamente rialzandosi, “tu sei tu o tu sei me? Perché se tu sei me, allora io devo essere te.”
“Chiunque tu sia, sei un pazzo furioso!” rispose l’altro appena sentì la domanda del Mullah.
“È solo che avendo la stessa costituzione fisica e vestendo in modo simile, ho pensato che avremo potuto confonderci cadendo”

DA “LE STORIE DEL MULLAH NASRUDIN

Yogah citta vritti nirodhah (Y. S. I, 2)

In modo conciso, in apertura del capitolo primo degli Yoga Sūtra, il Samādhi Pada, Patanjali definisce lo yoga come il nirodah (cessazione, rimozione, trascendenza, superamento) delle vritti (fluttuazione, movimento, turbinio) del citta (mente)
Lo yoga è la trascendenza, il superamento dei movimenti vorticosi della mente.
Nello yoga il complesso psichico viene designato con il termine aṇtahkaraṇa, che possiamo rendere con “senso interno” ed è diviso in tre “facoltà” specifiche:

Buddhi, la facoltà di discriminazione nella sua doppia natura intellettuale ed intuitiva.

Ahamkāra, l’ego, cioè la facoltà attraverso la quale ogni individuo stabilisce la propria identità, l'”io sono”.

Manas, la parte della mente che raccoglie le informazioni mandate dai sensi e reagisce ad esse in modo immediato ed automatico.

Con Citta si intende l’intero campo mentale, che comprende l’inconscio individuale e collettivo e le succitate tre facoltà. Questo complesso psichico e le sue funzioni appartengono al regno di Prakṛti, cioè alla dimensione materiale.

Lo yoga di Patanjali si fonda nei suoi principi e nella definizione dei suoi “meccanismi” sul darśana sāṅkhya*, un sistema filosofico (in verità è più corretto definirlo una cosmogonia) che propone una visione dualistica dell’essere, cioè suppone l’esistenza di due principi ontologici distinti: uno “spirituale” ed uno “materiale”. Questi due principi, tra loro distinti ed irriducibili l’uno nell’altro, esistono prima dell’origine della creazione e sono “a stretto contatto” senza mai confondersi. L’uno, il Puruṣa, che è pura coscienza ma incapace di divenire; l’altro, la Mula Prakṛti, che è il principio materiale incosciente, capace di divenire in potenza ma non ancora in atto, perché tra le sue componenti, i tre Guṇa, vi è un perfetto equilibrio e le tensioni interne sono tra loro così perfettamente bilanciate e compensate da impedirne non solo l’espressione, ma anche la distinzione. Per rendere l’idea, la Mula Prakṛti è come un seme immobile che non ha ancora ricevuto l’impulso a schiudersi.

Poeticamente, nel Sāmkhya è lo “sguardo” del Purusha che sbilancia la Prakṛti, turbando l’equilibrio dei tre Guna: essi dunque si manifestano ed è il Guṇa Sattva a manifestarsi predominando su Rajas e Tamas. Possiamo pensare ai Guṇa come a forze o qualità con caratteristiche specifiche, caratteristiche che si polarizzano e si individuano a partire dallo squilibrio iniziale (prima non è dato parlarne se non “in potenza”). La Mula Prakrti diviene Prakrti e si frammenta, si moltiplica, si diversifica nella molteplicità dei fenomeni creati; anche i concetti di tempo e di spazio nascono a partire dallo squilibrio iniziale. La creazione nel sāṅkhya avviene “a caduta”, dalla prima differenziazione dei tre Guṇa, per la predominanza di Sattva Guṇa si manifesta l’intelletto cosmico, il Mahat, l’intelligenza che contiene in potenza ogni cosa. L’Ahamkāra sorge dal Mahat ed è il principio di individuazione, la facoltà attraverso la quale una cosa si distingue rispetto le altre ed attraverso le altre. Dall’Ahamkāra sorge il Manas, il principio cognitivo, la mente cosmica, e poi, via via, gli elementi potenziali ed archetipici che si “condenseranno” negli organi di senso, di azione sino al manifestarsi degli elementi grossolani che costituiscono la materia più densa e “grezza”.

Nel gioco della Prakrti il Purusha non ha alcun ruolo attivo. “Egli” rimane immobile ed è pura coscienza, laddove la Prakrti, nel suo divenire, è però oggetto di esperienza per il Purusha.

La visione “macrocosmica” del sāṅkhya si traduce per analogia nel microcosmo umano: il Mahat corrisponde alla Buddhi, con le sue facoltà intellettiva ed intuitiva; l’Ahamkāra corrisponde al senso dell’io, al processo di identificazione con gli oggetti esteriori od interiori che danno alla persona il senso di “essere un qualcosa”; Manas corrisponde alla parte della mente deputata a raccogliere le informazioni che, attraverso gli organi di senso, giungono dall’esterno. Il corpo umano è costituito dagli stessi elementi grossolani che costituiscono il cosmo.

Quindi, ripeto, tutto il complesso umano appartiene al regno di Prakrti: il suo corpo, e tutto ciò che pertiene a Citta. Che ruolo ha il Purusha nel microcosmo umano? Dov’è?

Nel Sāmkhya viene contemplato un Purusha individuale. Concettualmente, la cosa non è semplice da “afferrare”, perché ogni Purusha individuale non è un frammento del Purusha inteso come principio ontologico e non è nemmeno il principio ontologico stesso. Immaginiamo di prendere un bicchiere d’acqua da un lago. Quell’acqua non è propriamente un frammento del lago e non è il lago stesso, ma la sua natura è identica a quella del lago. Il Purusha individuale si pone rispetto la componente “materiale” dell’uomo cosi come il Purusha, inteso come principio spirituale, si pone rispetto la Prakrti: è una pura coscienza che “osserva” lo spettacolo offertogli dal divenire della Prakrti. Accade però che si produca una confusione: come uno spettatore coinvolto dal film a cui assiste finisce per identificarsi con gli attori in scena, così il principio cosciente finisce per non distinguersi dallo spettacolo a cui assiste. Si rende necessario un processo che ripercorra allora in direzione opposta la strada che dalla condizione originaria, dove Purusha e Prakrti coesistevano distinti, ha portato alla molteplicità del mondo manifesto. Si deve cioè ricondurre all’unità originaria l’infinita molteplicità della Prakrti cosicché il Purusha si “veda” come “altro” e “distinto” dalla Prakrti stessa.

Lo Yoga, nella definizione lapidaria del sutra secondo del Samadhi Pada, sintetizza questo percorso. La mente che è in continuo movimento, va acquietata, sino a renderla immobile, ferma. Non è l’imposizione di un “blocco” né un esercizio coercitivo, piuttosto si tratta di un riassorbimento, un ritirarsi progressivo del Citta a partire dal Manas, che esclude le interferenze esterne “chiudendo” le porte sugli organi di senso, via via interessa l’Ahamkāra, che esaurisce gli oggetti su cui agganciare la propria identità e si ritira nella Buddhi, prima “manifestazione” della Prakrti. Nel silenzio ritrovato, qualcosa accade, ci dice Patanjali e il Purusha si riconosce come “altro” dalla Prakrti: è la liberazione.

Ciò che va sottolineato è che, per Patanjali, la liberazione è il risultato ultimo dello yoga, laddove, per definizione, lo yoga è tutto ciò che precede e pertiene alla dimensione della Prakrti. Il “gioco” è sul campo della materia e negli Yoga Sūtra Patanjali ci spiega le dinamiche ed i modi in cui funzioniamo sul campo da gioco, ci spiega le regole, gli ostacoli e ci indica molti “modi” per giocare.

Quindi, buon divertimento!

NOTA*: Darśana significa “punto di vista”. Il Sāmkhya non è l’unico sguardo possibile, non è l’unico sistema di riferimento per lo “yoga”. Il Tantra del Kashmir, per esempio, si fonda sul sistema Advaita, un sistema non dualistico. C’è chi sostiene l’inconciliabilità tra le visioni Samkya ed Advaita, personalmente non le trovo inconciliabili o, meglio, non ritengo ci sia la necessità di conciliarle. Il paragone che sento più adatto riguarda lo studio della fisica: le categorie della fisica newtoniana non sono adatte a spiegare le dinamiche della fisica quantistica, eppure comprendere la fisica newtoniana è indispensabile per accedere poi al sistema descritto dalla visione quantistica.

Pubblicato da zunyapala

"Esiste una stanchezza dell'intelligenza astratta, che è la più spaventosa delle stanchezze. Non pesa come la stanchezza del corpo, né inquieta come la stanchezza della conoscenza emotiva. È un peso della coscienza del Mondo, un non poter respirare con l'Anima." F. Pessoa

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